Mille asili in mille giorni. L’annuncio fatto ieri dal presidente del Consiglio Matteo Renzi è di quelli che – se alle parole seguiranno i fatti – meritano un brindisi. Nel nostro paese una donna su tre lascia il lavoro dopo la maternità. Una delle cause più vistose di questa patologia tutta italiana è proprio la penuria di nidi.
Il 2014 avrebbe dovuto essere l’Anno europeo della conciliazione tra vita professionale e vita famigliare. Così, almeno, nelle intenzioni del Parlamento Europeo che (Dichiarazione scritta n. 32 – Febbraio 2013) ribadisce come l’equilibrio tra lavoro e famiglia sia, non solo una questione di pari opportunità di genere, ma una questione più generale di sviluppo della società. Come testimonial dell’Anno era stato scelto il pinguino, quale esempio migliore di condivisione del lavoro di cura della prole e della Comunità di appartenenza. Come noto, vuoi per la crisi, vuoi per la concomitanza con le elezioni europee o, ancora, per il passaggio ad una nuova programmazione comunitaria, la volontà del Parlamento non ha avuto seguito.
Il segnale, ovviamente, non è incoraggiante. Soprattutto perchè giunge dall’Europa che ha sempre mostrato grande sensibilità su questi temi. Se le politiche a sostegno dell’occupazione femminile, per la valorizzazione del loro lavoro e, in generale, per le pari opportunità di genere hanno avuto un qualche successo in Italia, questo è senz’altro merito dell’impulso e delle consistenti risorse comunitarie messe a disposizione.
Mettere d’accordo famiglia e lavoro: chi ci prova tutti i giorni sa quanto sia faticoso. Se poi ci si mette di mezzo la crisi… Puf! l’anno europeo della conciliazione scompare come d’incanto. Doveva essere il 2014. Poi la Commissione Ue ha fatto marcia indietro. Il problema è che conciliare costa. Quando per molti (troppi) il problema diventa avercelo il posto di lavoro, la conciliazione rischia di diventare démodé .
E invece no. È proprio con la crisi che tenere insieme famiglia e lavoro diventa più difficile. Perché quest’ultimo è più flessibile. Spesso sconfina nelle serate e nei fine settimana. Servirebbero asili nido, per cominciare. Ma anche maggiori detrazioni per colf e baby sitter. E così, forse, le coppie prenderebbero il coraggio a due mani e farebbero qualche figlio in più (oggi il tasso di natalità è fermo a 1,4 figli per donna).
Un welfare che fa i conti con i tagli alla spesa sociale e che valorizza il concorso di risorse private e familiari. E’ il “nuovo welfare territoriale”, che va diffondendosi in risposta al crescente divario fra bisogni sociali e risposte pubbliche nel nostro Paese. È una strada che si affianca e intercetta altri percorsi, come quelli attuati dalle imprese private attraverso gli interventi di welfare aziendale (il cosiddetto Secondo welfare) e quelli ormai consolidati delle famiglie, che hanno fatto ricorso a badanti e baby-sitter (il welfare “fai da te”).
È sciopero. Sciopero della maternità e della paternità. Niente figli: ecco l’uscita d’emergenza dal tunnel della crisi. Il tasso di natalità in Italia ha cominciato a scendere nel 2008. L’anno di Lehman. E oggi? Sul fronte dell’occupazione le donne hanno retto meglio degli uomini.
Altro che Italia. Il secondo figlio è nato da un mese appena e a casa già arriva un assegno mensile da 124 euro. Succede in Francia, unico Paese al mondo — certifica uno studio dell’Institut national etudes démographiques (Ined) — ad avere un tasso di fecondità costante da 40 anni: qui il numero di figli per donna è di 2 dal 1973 (contro l’1,42 dell’Italia, dati Istat). Miracoli del welfare. Per il demografo Gilles Pison il baby boom in Francia non è mai finito per merito della politica familiare messa in campo dallo Stato, che investe nel sostegno alla maternità il 5% del Pil. Al compimento del 14esimo anno di ogni figlio (e fino al 20esimo) l’assegno aumenta di 62 euro. Indipendentemente dal reddito. Per il 90% delle famiglie (tutte tranne le più abbienti) è previsto un bonus bebè da 923 euro che scatta al settimo mese di gravidanza. E fino al terzo anno di vita del bimbo, sempre per il 90% delle famiglie, c’è un assegno mensile di altri 186 euro.
Di fronte alla carenza di servizi pubblici rivolti alle famiglie, molte aziende offrono sostegno ai dipendenti sotto forma di welfare. Aiutare la conciliazione dei lavoratori può innescare circoli virtuosi, a patto che questo avvenga in coordinamento con le amministrazioni locali.
Fornire una definizione esauriente di “welfare aziendale” è esercizio tutt’altro che scontato, date le diverse connotazioni che questa espressione può assumere a seconda dei contesti in cui viene impiegata. In linea generale, la nozione di welfare aziendale identifica una serie di servizi e prestazioni messi a disposizione dal datore di lavoro a favore dei propri dipendenti, al fine di aumentarne il benessere e (possibilmente) la produttività. Esempi classici di welfare aziendale sono asili nido e borse di studio per i figli dei dipendenti, copertura totale o parziale delle spese sanitarie, ma anche orari più flessibili, auto aziendale, prestiti agevolati e così via.
A Milano é appena nato un corso di formazione che si intitola “MaaM – Maternity as a Master”. La maternità è infatti tuttora vissuta come un problema nelle aziende, soprattutto in quelle italiane, e per le donne che lavorano é effettivamente un ostacolo, con un prezzo alto da pagare in termini di indebolimento personale e professionale.
Il tempo delle donne è molto elastico. Ma c’è un tempo che ormai si è esaurito: quello delle attese inutili, a causa di promesse non mantenute. Eppure la scarsa valorizzazione delle donne italiane, del loro tempo, del loro talento, del loro lavoro, continua ad essere uno dei principali tappi che ostacolano il cambiamento economico, sociale e in parte anche politico del nostro Paese.